<Storia del Mago Chiozzini e di Urlon del Barco>

Storia fantasy in un grande romanzo NON fantasy:"Il Mulino del Po",Riccardo Bacchelli 1938-1940

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  1. MorganeLaFée
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    [Siamo poco dopo l'inizio del romanzo e il personaggio principale,Lazzaro Scacerni,reduce dalla ritirata delle truppe napoleoniche in Russia,durante la quale in modo rocambolesco ha "ereditato" un tesoretto in gioielli,frutto di saccheggio,è stato al Ghetto di Ferrara per ritirarlo e se ne ritorna nella valle del Po,alla sua dimora,attraversando in una notte buia e fredda il Barco,un quartiere di Ferrara,noto per una fosca leggenda.]

    Si vuole che Urlone abitasse già in Barco e vi si facesse sentire,specie nelle notti tempestose, anni e secol prima che il cabalista eastrologo Chiozzini si trasferisse dalla nativa Mantova a Ferrara,comprandovi, per andarci a stare colla famiglia, palazzo Palmiroli inRipagrande, dietro il ramparo di Piangipane. E qui il Chiozzini diventòanche mago, scavando in cantina, dove trovò una cassetta con dentro illibro degli incanti, e la formola per chiamare il diavolo; e fecel’operazione un 19 novembre; la storia è esatta in luoghi e date, oaltrimenti non è storia; un 19 novembre: un omiciattolo, vedi un po’,cotesto diavolo, storto, sbilenco da tutte le parti, panciuto su gambetteesili, di pelo rosso che gli mangiava la fronte, rinselvava gli occhivolpini, riempiva gli orecchi: insomma, una presenza cosí goffa emeschina, che Chiozzini: – Ma tu, – disse, – che miseria di diavolo sei? – Magrino, mi chiamo, e pretendo d’essere il tuo fedele Magrino.
    – Voglio dire: sarai buono a servirmi? – Alla prova mi conoscerai.Chiozzini lo scrutava per indagare se era un diavolo sincero, e gliscorse nell’occhio lo sguardo del basilisco, che ad altri, non protettodalla magia nera, sarebbe riuscito senz’altro mortale; la voce di Magrino, per quanto la moderasse ipocritamente, era stridula e cupa insieme,sforzata sempre come se urlasse; le parole gli uscivan di bocca ingroppo, prestissime, stemperatamente: insomma, prometteva. Con lu ientrarono in casa un cane, un gatto, un gallo bigio e un affezionatissimoscarafaggio, e corvi servizievoli.La prima impresa fu a Vienna, a riparare una rotta del Danubio.Chiozzini, Magrino e la compagnia, s’eran messi in via con un calessedei piú sgangherati, tirato da un cavallo nero e da uno bianco, cosíslombata pariglia, che tutta Ferrara accorse a vedere. L’accompagnaronocolle matte risate fino alla porta di città, e di sulle mura gremite gliridevano, finché subito fuori, sulla strada per il ponte del Lagoscuro,frusta Magrino, hop là! Calesse e pariglia staccan da terra le ruote e glizoccoli, e si levano per l’aria, e via in volo oltre i monti. A Vienna il mago infuse tanta forza nei lavoranti, che in brevi giorni fu rimesso insesto il Danubio, fornendo un’opera che naturalmente avrebbe richiesto lunghi mesi. Ma sarebbe stato meglio per lui non impermalirsi e tenersile risate e non aver fatta quella spacconata del volo equestre, perché alritorno lo misero in prigione come eretico mago, e volevano bruciarlo, per buona regola, sul rogo.Sotto la prigione c’era un’osteria. Chiozzini domandò un secchio.Quando gliel’ebbero portato, lo mutò in una barca, per acqua e per aria.Per questo l’osteria fu chiamata della Barcaccia, e i cittadini si persuasero che non c’era da fare contro di lui, senza contare che un magoin città poteva riuscir comodo.Infatti di solito non tirava a far danno al prossimo, anzi divertí icittadini con piú luminarie festose, di splendidezza non piú vista né prima né dopo; e, per dirne un’altra, andò a Mantova a liberare il palazzodagli spiriti che l’avevano invaso. Troppo vaste le stanze, troppo vuote,coi tempi immiseriti; ci si sentiva: urli, e catene scosse, e gemiti fuoridell’umano. V’apparivano fiammelle vaganti, luci d’incendi spaventose.Anime di peccatori in pena fuggivano per le stanze e sui tetti, mentre leloro vittime le rincorrevano per vendetta: assassini e assassinati, sedottee seduttori, traditi e traditori; nefandità e stupri, insomma, di quelli d’unavolta e d’ogni gran palagio e castello. Chiozzini mise mano agli scongiuri del caso, e il palazzo fu liberato.Compariva, sempre al volo, nelle feste delle corti piú diverse,lasciando Magrino e le bestie in portineria; e riusciva gradito e splendidoalle dame e ai signori. A Ferrara, in casa sua, teneva corte bandita, con poca spesa: – Che desinare vogliamo stasera: del re di Francia, o diSpagna, o quello dell’Imperatore, ovvero del Sultano?Gli amici sceglievano, e Magrino serviva in tavola caldo,caldo ildesinare di uno di quei coronati, che restavano digiuni nelle loro reggie,e altamente stupiti, perbacco! senza che valesse prendersela né col cuoconé collo scalco, né col cantiniere, né colle guardie.Cosí tirò avanti piuttosto bene che male, fino a tanto che ormai siavvicinava la scadenza della scritta, colla fine del quinto anno; eChiozzini rifletteva. Il bene, se bene era da dirsi, andava per la piú parteagli altri; il male sarebbe toccato tutto a lui. Una volta, congedati gliinvitati dopo una splendida festa (sua moglie, donna semplice buona e pia, non v’interveniva mai, ed era già a letto dall’ora delle galline),mentre l’alba schiariva i vetri delle finestre e arrossava il balcone d’oriente annunciando una bellissima giornata, benché ai primi didicembre, egli si sentí diventare melanconico e triste.
    – Padrone, – gli chiedeva Magrino, che l’aveva seguito per le stanzefra i rimasugli sciatti del tripudio consumato, – non riuscí bella abbastanza la festa?Il cane le orecchie, il gatto la schiena, lo scarafaggio drizzava le cornanere, e il gallo bigio taceva, che a differenza dai galli di naturale buono,cotesto, proveniente da non si dice dove, salutava non il sorger delgiorno ma il calar della notte. Con quella compagnia Chiozzini era stato per curiosità al noce di Benvenuto e al gran sabba delle streghe nellevallate trentine. Adesso dunque era triste, e taceva, guardando l’alba. – Padrone, padrone, che pensiero ti angustia?Per l’ansia, e per voler farsi amorevole, la voce di Magrino non eramai stata cosí orrida e tetra. – Pensavo – disse Chiozzini lasciando la finestra – che la festa micosterà cara. – Oh! Quando mai? Eppoi, se vuoi moneta, non c’è il fedele Magrino? Ti vuoto qui in Ripagrande il tesoro del Cataio, le casse d’Olanda, le miniere del Perú... – Finiscila! Pensavo che nessuno dei miei allegri convitati mi vorrà
    tener poi compagnia a pagar lo scotto della festa all’inferno.Magrino si torceva in maniera, che, a non saperlo fuor di natura, c’era
    da crederlo stretto e angariato dal piú naturale dei bisogni: – Oh, – dissestentando e precipitando le sillabe piú che mai, – tu scherzi! Se ti piace lacompagnia di costoro, te ne porto giú quanti ne vuoi. Non uno resisteràalle mie tentazioni, sprecate però, vedi, sprecate, perché laggiú c’è compagnia, oh, molto piú scelta: re di corona, cavalieri, sapienti, filosofi, poeti e belle donne bellissime, e imperatori, senza contare il nostro, Sua Maestà Lucifero Belzebú, il piú grandissimo di tutti. Ma tu che dici, padrone? – Che mi discredo e mi disdico, che mi pento e mi batto il petto; enon rinnoverò la scritta che scade.
    Non era ancora scaduta, altrimenti lo sguardo del basilisco l’avrebbe stecchito. Chiozzini era solo. In sala non c’era piú alcuno: ringraziava della grazia ricevuta, che gli fosse dato pentirsi prima della fine del patto. Giú per Ripagrande passavano i barroccini dei contadini, che s’eran mossi di casa, per portare latte e uova e pollame e verdura al mercato, nell’ora che la festa di Chiozzini era stata piú animata e piú calda di vino e di amore, di promesse e di pegni, che gli uomini scambiavano colle donne, danzando e scherzando: una facile retata per Magrino, che non s’era vantato, quando gli aveva offerto di portarglieli giú tutti in mazzo a fargli compagnia all’inferno. Chiozzini aveva aperto e s’era affacciato alla finestra; gli pareva che il sole nascente e l’aria fredda e sana lo liberassero dal peso di una notte lunga come la dannazione. I contadini guardavano in sú, chi fosse quel mattiniero alla finestra di palazzo Palmiroli; e videro uno stormo di corvi levarsi dal tetto, dividersi e indirizzarsi ai quattro venti. Da levante l’alba ingrigí, ed alto,alto una foscaglia di nuvole coprí il cielo, mentre da settentrione una lama di sereno, ma gelida e maligna e verde, ma attraversata da sprazzi rossi come sangue, radeva il piano verso le quattro torri del Castello di Ferrara.Chiozzini, che sapeva che cosa c’era di nuovo e stava coll’animo ansioso, salí di corsa sull’altana, e di lí vide il vento chiaro e rigido settentrionale gonfiar per di sotto il turbine greve e molle levantino,levarlo fin al cielo piú alto, nero e cenerigno. Piovaschi e trombe marine correvano la spiaggia del mare lontana e fuor di vista, e le lagune.Sembrò crollo d’immensa frana, e che desse di volta il cielo, quando, con un soffio orrendo a cui tutto piegava e cedeva, il turbine precipitò sulla campagna e sulla città. Lampeggiava e tuonava come di luglio, quasi a dimostrare colla sovvertita usanza di stagione, che l’evento era prodotto dall’ira nefasta di una malignità soprannaturale. Grondaie, fossi e chiaviche traboccarono, e rigurgitavano come le parole nel gargarozzo senza stura di Magrino; le vie correvano come torrenti colla roba della povera gente, e carogne di piccoli animali affogati.Quando canali e valli e ogni luogo basso della campagna fu inondato da quella furia e ben pieno d’acqua, cadde il vento e cominciò a piovere a distesa, mentre un contrasto d’altri venti, sorti da mezzodí e da ponente, fissava lo scroscio dirotto sugli Appennini. Cominciarono a venir a galla carogne d’animali grossi, e cadaveri umani. Scirocco: le nevi già cadute scioglievano fin sul piú alto dei monti. Al terzo giorno simise quel vento d’ostro che combatte il fiume Po sulle bocche, lo agita e sconvolge e innalza, piovendo tuttavia ai quattro canti dell’orizzonte,come Chiozzini poteva vedere dalla sua altana. Gli argini ruppero alla Stellata, e l’acqua corse fin sotto le mura di Ferrara, che parve costruita in mezzo a un mare di disgrazie.Nell'animo di Chiozzini la pietà della sciagura pubblica combatteva colla pietà privata e di sé stesso, il quale doveva rimetter l’anima a repentaglio per il bene generale. Vinse questo, quantunque un dottore sottile voglia che non fu estraneo un moto dell’orgoglio, al pensare chel’anima sua fosse tenuta in pregio quanto l’inferno dimostrava con quel po’ po’ di subbuglio. Sia come si vuole, chiamò Magrino. – Sempre ai tuoi ordini. Che tempaccio, eh? – Mi impegno per altri cinque anni. Carta, penna e calamaio. – Cinque? – Cinque: quanti ne vuoi? – Son pochi. – Ingordo! Vattene in malora. Tu tiri a che io muoia in tua servitú. – Mi si dice, anche Panaro ingrossa; e stasera Po romperà in altri due punti. Lasciam fare. E’ proprio venuta la fine di Ferrara. Ti occorre unombrello? – Fa tu il prezzo, diavolo assassino. – Voglio dodici anni. – E dodici siano.Cosí il Chiozzini firmò, e risparmiò la patria adottiva; e non ful’ultima volta, poiché, asciugate le acque e tornati a ridere di campi prosperi, un esercito di tedeschi calò ad assediarla. Ed erano tanti e cosí animosi e feroci oltramontani, che la città non avrebbe potuto resistere, per quanto potentemente fortificata, se non vi fossero state sui bastioni le bombarde di Chiozzini, gran maestro d’artiglieria, con Magrino luogotenente artificiere. A palle infuocate, rovesciavano falciavano,squarciavano le file e il grosso degli assalitori; e una volta che i tedeschi con impeto disperato, aperta la breccia, già tenevan le mura in piú punti e s’affacciavano bramosi al sacco e alla strage, Chiozzini fece vomitare fuoco vivo dalle bombarde, che s’apprendeva ai tedeschi, infuocava armi e corazze. Sbalorditi dapprima di vedersi fiammeggiare in mano picche,spuntoni, sciabole e spadoni; tosto cotti come gamberi dentro le corazze,mettevano urli tali che parve aperta la bocca dell’inferno. Eccoli saltar nell’acqua del fossato largo e profondo, per procurare refrigerio o scampo, ma vanamente l’uno e l’altro, perché Chiozzini abbassò le bocche sul fossato; e quel fuoco serpeggiava, correva, ardeva anche nell’acqua gli attuffati, o li lessava nel bollore. Intanto, a incuter pari se non maggior terrore nei nemici e negli amici, Magrino saltabeccava sugli spalti del ramparo di Piangipane, e faceva suonare un riso squarciato, piú strepitoso delle artiglierie, piú clamoroso della battaglia, piú acuto degli urli di dolore a cui insultava, cachinno infernale.I tedeschi dovettero rassegnarsi a mettere assedio regolare, per veder di prendere la città per fame. Dentro, il piú bravo e leale difensore era Capitan Riviera, giovane bello e snello e vigoroso, valente sí a piedi che a cavallo, tanto che dal vecchio Salinguerra in poi Ferrara non ne aveva visto un altro pari a Capitan Riviera. Disprezzava le arti magiche di Chiozzini, e le pativa a malincuore e soltanto per l’estremità del periodo e della necessità.Chiozzini, a causa d’una donna, Chiaristella, la piú vezzosa di Ferrara, aveva perso il sonno e il gusto del mangiare, senza poterla indurre, né con preghiere né con regali né con lusinghe né con feste, a dimenticare il suo dovere di maritata, quantunque moglie giovine del vecchio podestà. Com’era la piú bella, rimase la piú virtuosa, finché non vide Capitan Riviera, e acquistò in bellezza quanto perse in virtú.Figurarsi il Chiozzini! Al bruciore della gelosia, della lussuria e dell’invidia, aggiunser furore l’umiliazione e lo scorno. Il pubblico,infatti, dopo aver esaltata Chiaristella virtuosa a danno di Chiozzini, la scusava, la vagheggiava innamorata del prode e cortese difensore; certo tutti deridevano il mago, come goffo e presuntuoso, che voleva sedurre la dama colle sue grandezzate di villan rifatto.Una volta dunque Capitan Riviera era uscito con pochi compagni, di notte, per una delle solite fazioni, e doveva ritornare fra poco. Il castellano della porta di San Paolo stava pronto colle chiavi alla mano per farlo rientrare. Era giorno fatto ormai. Il valoroso e sprezzante govane s’era attardato a metter lo scompiglio nel campo nemico. Venivaa spron battuto, inseguito da numerosi tedeschi, voltandosi ogni tanto afar fuoco colla carabina sugli inseguitori, infallibile. I ferraresi e le ferraresi, con Chiaristella e il podestà a capo, solevano venir sulle mura a godere delle sue prodezze in queste occasioni.Era sotto la porta, era in salvo; il castellano non trovava piú le chiavi.I tedeschi stringevano in numero soverchiante, gli s’erano spinti addosso,sferragliavano; dai bastioni nessuno poteva aiutare Riviera, per nonferirlo colle spingarde. Si liberò dagli aggressori, galoppò sotto le murafino ai rampari di Piangipane, quasi il cuore gli indovinasse da chiveniva il tradimento. Qui dovette dar volta davanti ad altri nemici, che rrivavano freschi alla battaglia. – Le avevo qui! – urlava il castellano strappandosi i capelli. – Le avevo in mano, maledette chiavi! Non si trovarono. Capitan Riviera tornava sotto porta San Paolo, i suoi eran tutti morti o feriti e appiedati; egli solo a cavallo. Si drizzò in arcioni, salutò con ogni compitezza Chiaristella e il marito podestà. Poi,a sciabola levata, spronò contro i nemici, senza paura. – E’ opera diabolica! – urlava il castellano;ed era. Appena morto Capitan Riviera, le chiavi saltaron fuori. La gente stette zitta, perché avevano bisogno di Chiozzini e delle sue artiglierie;ma quando alla fine per suo merito gli oltramontani ebber levato l’assedio, nessun cittadino volle piú mostrare di conoscerlo né accettare i suoi inviti a cena.Dopo quella nefandità, forse per svagare il rimorso, Chiozzini girò le parti del mondo vecchio e nuovo; e tornato a Ferrara diceva: – Ognuno desidera soltanto quel che non ha, e disvuole quel ch’è suo per quel degli altri. Le voglie non terminano nella soddisfazione, ma nel fastidio. Dappertutto gli uomini dicon male di quel che non possono avere o distruggere. Chi non sa valersi del ferro, adopera il veleno. Chi non ruba ai privati, ruba al pubblico, e viceversa. Gli uomini son tutti uguali, e il mondo s’accorcia a camminarlo.Per distrarlo fino alla scadenza del dodicesimo anno, Magrino le tentò tutte: fece prendere il volo a case e palazzi, e li tenne per aria tutta notte,tornandoli al posto loro la mattina, senza che inquilini e padroni si fossero destati; Chiozzini s’annoiava. Gl’insegnò, oltre le lingue degli uomini, il parlar degli animali, che gli parve insipido. Mutò teste di uomini con teste di donne, e viceversa, coi relativi giudizi e appetiti;riuscí farsa sciocca e laida. Fece venire il mare e i monti a Ferrara, e si sentí dire: – Se mi annoiano quando vado io a vederli, diavolo senza sale, perché mi hanno a divertire quando vengon essi a veder me? Non c’è neppure lo svago del viaggio.Insomma, era tanto svogliato, che non aveva la forza né di pentirsi né di peccare, e avrebbe finito per dar l’anima innanzi il termine, se un giorno la buona moglie, che non gli serbava rancore dei suoi innamoramenti, non gli avesse messo in tasca di nascosto una corona da rosario benedetta. Magrino era uscito a fare la spesa; le bestie, avvertite dallo scarafaggio spia, e degno protettore di tutte le spie, sgombraron subito dal palazzo di Ripagrande; e i corvi volarono ad avvisarlo, poiché Chiozzini, uscito di casa a veder se poteva trovare un po’ di fresco per la contrada degli Spadari, se lo vide incontro affannato cogli occhi infuocati, piú orrendo e ridicolo che mai, arrancando sulle gambe bistorte, colla sua pancetta e le braccia tozze, a unghie protese. Era la vigilia dell’Assunta. Chiozzini lo guardò con voglia di ridere per tanta goffaggine sguaiata. Magrino gli si avventava contro ringhiando e digrignando, ma non poteva accostarlo, e s’aggirava come un cane impazzito dietro la propria coda, come un cane guaiva e uggiolava, colla lingua fuori. Chiozzini voleva scherzare: col caldo gli avesse dato divolta il cervello? Ma un’immensa stanchezza gli era caduta sulle membra, sugli occhi, nel cervello e sulla lingua. Tremava come uno che patisce di mal caduto.Un’avversione, uno schifo antico e nuovo per lo sciaguratissimo servo, lo occupava; e per levarsi di torno quello sciamannato, siccome poco innanzi aveva avuta voglia di tabaccare, e s’era accorto d’aver dimenticata a casa la tabacchiera: – Vammela a prendere, – comandò, – va: te lo ordino in virtú della scritta: è ancora valida.Chi non vide il diavolo fra l’obbligo che lo cacciava e la smania che lo tirava, non ha visto ancor nulla. Partí come una saetta, per tornare in un baleno, ma era bastato. Il Chiozzini aveva varcata la soglia della vicina chiesa di San Domenico, con tale sforzo da cadere ansante e quasi esanime sopra la prima panca. Era salvo.Magrino, o piuttosto ormai col suo vero nome Urlone, girava vorticosamente attorno alla chiesa. Chiozzini, esorcizzato dai domenicani, pentito, sostenne poi con lui una disputa in sillogismi e in tutte le lingue; resistette a tutte le tentazioni e persecuzioni; e lo confinò nel Barco deserto. Non potendo piú niente contro l’anima, Urlone si vendicò sul corpo, una volta che il Chiozzini s’era recato a Trecenta nel Polesine d’oltrepò.Ecco tremendissimo uragano e terremoto, che dirocca il paese.Chiozzini rimase anche lui sotto le macerie, con danno inestimabile,quando si sappia e si consideri ch’egli aveva indirizzata la mente e la scienza, tornato sul retto sentiero, a stendere un progetto per bonificare le
    valli; per rimandare ai bolognesi il Reno, già dalla costor malizia e da un antico errore immesso nel Po di Ferrara, che ne riuscí interrato; e per ridare acqua al Volano, e commercio al porto di Ferrara e a tutti quelli del litorale, a dispetto dei veneziani, antichi e ostinati nemici e oppressori della prosperità fluviale e marittima ferrarese.Ma la famiglia Chiozzini, che sospettava il diabolico in ogni sua cosa, bruciò tutte le carte del mago pentito, e anche queste dei progetti mirabili.

    Scacerni, sulle mura di porta degli Angeli, rammentava Urlon del Barco, con un sorriso sulle prime, per certe particolarità burlesche di quel diavolo famoso in tutto il ferrarese; che girava in campagna e s’affacciava alle case vestito da frate o da accattone e rompeva tutte le uova delle massaie, o le mutava, mentre queste andavano a prendere un tozzo di pane secco per fargli l’elemosina, in tanti carboni e torsoli.Anche, mentre s’avviavano al mercato, entrava nella sporta, e vagiva, bambinello barbuto che alle spaurite tremanti gettava nello sparire lazzi sguaiati e il suo riso stridulo. I contadini, anche quelli che non avevan mai patito o che dubitavano di tali beffe, gli imputavano però i danni della grandine, i barcaiuoli e mugnai del Po le tempeste pericolose. A buon conto, sulle aie e davanti alle soglie, a sera, prima d’andare a letto,mettevan due attrezzi in croce, che gli sbarravano il passo; o ardevano ulivo davanti agli usci, sulle palette, coi tizzoni avanzati del focolare.Trascurare o disprezzare queste pratiche, sarebbe sembrata piú che temerità scimunitaggine. E neppure a Scacerni era mai venuto in mente di dubitare del diavolo e delle sue operazioni.Insomma sul punto di calarsi in Barco, dimora d’Urlone, giú dalla vecchia e cadente porta degli Angeli interrata, sentiva un tal qual freddo e disagio. Si sforzò di vincerlo, pensando: – Nebbia asciutta, tempo buono. Se Urlone sapesse la fame che ho io, si guarderebbe bene da capitarmi a tiro.Si segnò, e si calò giú dal muro sbrecciato, che offriva molti appigli.Giú la nebbia, benché luminosa, era fitta e cieca. Attraversò il fossato melmoso, e prese un sentiero che gli prometteva di allontanarlo dalla città in direzione del Lagoscuro.






















     
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  2. KingForEver
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    Ho letto "Il Mulino del Po" tanti anni fa,se non erro è addirittura una trilogia! e,ovviamente,data l'età,da ragazzo ho visto il mitico sceneggiato TV in bianco/nero con Raf Vallone che interpretava Lazzaro Scacerni e poi ricordo Salvo Randone che era il Raguseo,Gastone Moschin FraTognone e Giulia Lazzarini Dosolina. Ma me lo sono scaricato e-book ora ora (qua non ce l'ho!)perchè mi hai fatto venire voglia di rileggerlo! :D
     
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  3. DaniMZBradley
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    E a me di leggerlo per la prima volta, accipicchia! :o:
     
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  4. MorganeLaFée
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    Mi permetto di farvi notare le usanze delle campagne ferraresi per tenere buono il diavolo Urlone (mia nonna raccontava di simili favole anche nelle mie campagne romagnole!) descritte nell'ultimo pezzetto da Bacchelli:sone le stesse che in Irlanda si usavano per tentare di neutralizzare il Piccolo Popolo,le Fairies!!

    avatar14691


    WOW!!! quante belle piccole gif si possono caricare sul forum!!! :lol:

    Edited by MorganeLaFée - 2/6/2012, 16:57
     
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  5. Silm@rien
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    CITAZIONE (DaniMZBradley @ 2/6/2012, 14:47) 
    E a me di leggerlo per la prima volta, accipicchia! :o:

    anche a me!
     
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4 replies since 1/6/2012, 23:03   1223 views
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